Chi mi conosce bene sa che dico sempre solo la metà di quello che vorrei dire e solo la metà della metà risulta comprensibile. Il che, lo ammetto, è una valutazione generosa delle mie capacità comunicative.

martedì, gennaio 27

Sabato sera ho visto il film di Gus Van Sant “MILK”, con Sean Penn. E’ la biografia degli ultimi anni di vita del primo gay dichiarato a ricoprire una carica pubblica e politica in America alla fine degli anni ’70. Al di la del valore “militante” del film, per me vale molto di più come grande metafora e celebrazione del cambiamento. Cambiare se stessi per poi cambiare le cose.Certo il primo passo (e il più difficile) è cambiare se stessi. Cambiare non vuol dire diventare altro da ciò che siamo, ma vuol dire lasciare da parte ciò che crediamo di essere o ciò che gli altri vogliono che noi siamo, per entrare invece più in contatto con la nostra natura autentica con ciò che vogliamo, che sentiamo, che crediamo e con ciò che possiamo effettivamente diventare se solo diamo fiducia e sostegno alle nostre potenzialità sopite. Alcuni preferirebbero morire piuttosto che cambiare. Siamo tutti un po' pigri e di rado ci sforziamo davvero, a meno che qualcosa non ci costringa, o che soffriamo a tal punto da essere disposti a fare qualsiasi cosa per alleviare il dolore, sia fisico o mentale, emotivo o finanziario. Quando parliamo di cambiamenti vorremmo sempre fossero gli altri ad attuarli, non noi. Vogliamo che gli altri lo facciano, regalandoci così una vita diversa. Cambiare se stessi vuol dire accettare e vivere le nostre paure. Paure che possono essere le più varie, come dimostra il film: dalla paura di essere uccisi o più semplicemente nell’accettare una donna (o più metaforicamente il pensiero femminile o la diversità) all’interno di un gruppo di soli uomini. Cambiare se stessi vuol dire cambiare punto di vista sulle cose o su alcuni pregiudizi, e il cambiamento può arrivare dopo un viaggio in Europa. Cambiare se stessi vuol dire avere il fegato di rimangiarsi le cose dette in precedenza. Cambiare può significare liberarsi dal senso di colpa, di isolamento, di separazione o solitudine di rabbia, paura o dolore: da sentimenti ed atteggiamenti che causano diffidenza verso il futuro e che condizionano la nostra mente e ci creano difficoltà invece di condurci verso la conquista di nuovi obiettivi. Cambiare vuol poter dire allontanarci da una persona che dimostra di non capirci e di non amarci.Ed è solo dopo questo cambiamento “personale” che, inevitabilmente, segue per i protagonisti del film il cambiamento dello status quo che li circonda. Nel riconoscere le loro esigenze di omosessuali si accorgono di quelle degli altri (neri, anziani, minoranze…). Il cambiamento della realtà passa necessariamente per questo contatto più autentico e profondo con se stessi prima di tutto. Come possono cambiare le strutture, infatti, se le persone non sentono neppure l'esigenza del cambiamento?Ed è nel finale del film che esplode la forza catartica dell’osare, dell’alzare la posta in gioco. E' nell'oltrepassare i propri limiti che MILK si sente ancora più vivo e che sperimenta in pratica la sua capacità di modificare la realtà con il suo contributo. Rischia e decide di non farsi limitare da idee preconcette di se stesso, non rassegnandosi a dipendere dalle sue paure e dalle sue (naturali) incertezze. E per farlo ha bisogno del gruppo, di “amici”, di coscienze e deve vincere la battaglia conto l'isolamento interiore. Il film pur essendo ambientato 30 anni fa, ci mostra una realtà attualissima. Anche oggi abbiamo tanta comunicazione esteriore - internet, telefonini, email, fax - ma è tutta comunicazione superficiale. C'è molta comunicazione e pochissima comunione. Le vie di fuga sono molte: alcool droghe, sesso solo come passatempo... La nostra è una società in cui l'attività è esagerata e la comunicazione eccessiva, senza nessun momento di solitudine, senza nessuna pausa. Le pause sono molto importanti, nel parlare, come in musica; quando mancano le pause, in un dialogo, la comunicazione rimane solo superficiale. E infatti la vera “forza” a MILK la danno delle telefonate private, dove lui ascolta più che parlare come è costretto a fare nei comizi. Telefonate quasi con una forma primordiale di se stesso che gli danno la possibilità di vedersi a ritroso, come sarebbe stata la sua vita senza gli effetti del cambiamento che ha avuto la forza di intraprendere.
Voto: 5 stelline (su cinque)

giovedì, gennaio 22

Tra un pò sarà San Valentino. E prepariamoci fin da ora perché gli amici, i genitori, i mass media, ci indurranno a ritenere che sia "indispensabile" avere un partner e così ci convinciamo che se non abbiamo un partner siamo "diversi" e che di sicuro ci manca qualcosa. Ma per l'occasione ci presenteranno un immagine di coppia talmente stereotipata che ci fa rosicare solo la sera del 14 Febbraio, poi rientriamo in noi.

Invece in questi giorni il fidanzato fotografo di Michael Stipe (il frontman dei REM), ha pubblicato sul suo sito alcune foto casalinghe di loro due. E queste son cose che fanno male. Veri e propri colpi bassi.
Ma guardateli. Dalle foto emerge non solo la felicità (che è l'aspetto più semplice che ci viene presentato a San Valentino) ma anche l'impegno. Si avvertono le decisioni che hanno preso nel corso degli anni (come mettiamo lo spazzolino e il dentifricio? Il Mentadent o Fluocaril? Fluocaril sia!). Decisioni prese avendo sempre come priorità il loro stare insieme. Non mi ricordo dove ho letto che la coppia felice si riconosce dall'impressioe di felicità che offre in pubblico. Di fronte agli altri i due Stipe/Dozol manifestano un'unica opinione: l'opinione della felicità.
Loro sono felici in due. Io credo che mai più potrò essere felice in quel modo. Ho smesso di cercare. E se smetto di cercare cosa resta? Mi resta quello che è sempre stato qui, al centro. Dietro alla ricerca c'era l'angoscia, il disagio. Adesso lo capisco, ricercavo qualcuno che volesse condividere la mia angoscia e il mio disagio. E adesso so che rimarrò sempre deluso.
Devo imparare a bastarmi per poter un giorno tornare ad essere felice, da solo. Infatti, si dice che per vivere una vita felice è necessario essere capici di godere di ciò che già si ha. Che sia anche la propria singlettudine o il proprio disagio.

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martedì, gennaio 13

Che fine ha fatto la cultura gay?

Oggi su tomblog.it ci si pone una domanda da 1.000 dollari: esiste ancora una cultura gay? E se sì, in cosa consiste? Nell’invitare Fabrizio Corona come superospite delle nostre serate in discoteca? O nell’incoronare Lady Gaga (cugina più tamarra di Britney Spears e Christina Aguilera) come futura icona frocia?
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La cultura gay è stata uccisa, dai gay stessi a mio avviso.
Alcuni esempi? Nei locali gay ormai le serate che "tirano" sono le feste orsi, che a mio avviso rappresentano la morte della cultura gay. Infatti il movimento orsi cerca di scimmiottare (perché per sempre di una bassa imitazione si parlerà…) dei canoni di mascolinità (barba, camice a quadri da boscaiolo, capellini da baseball che già a 16 anni sei fuori tempo massimo…) di matrice e di estetica eterosessuale. Le serate orsi mi dicono che i gay vogliono diventare etero. E da questa partenza che razza di (contro)cultura vuoi produrre? Inoltre uno degli elementi di forza della cultura gay era l’esaltazione della diversità. E invece il movimento orso ha imposto delle categorie dove rinchiudere le persone, delle definizioni strette per ingabbiare le persone. O sei orso o sei cacciatore.
Hai ragione a fare gli esempi pop della musica. Lady Gaga, Britney, o la snervante Katy Perry sono le cantanti di riferimento dei giovani gay. Vi rendete conto che la maggior parte dei giovani gay non sente il bisogno di cercare canzoni che parlino ESPLICITAMENTE di amore gay e non di una fantasia-notturna-post-caponata-di-cozze tipo “ I’ve kissed a girl”? Molti gay non solo non conoscono, ma non si emozionano con le canzoni di Antony, di Rufus, e di altri gay che cantano l’amore omosessuale. Io ho 36 anni e mi ricordo che negli anni ’80 avevo bisogno di “definirmi” in quanto omosessuale perché i media non ne parlavano molto come fanno ora. Avevo bisogno di cercare modelli “diversi”, “alternativi” che mi aiutassero a riconoscere la minoranza di cui sentivo di far parte, soprattutto in quanto non mi riconoscevo nella maggioranza. Mi spiego? E in quegli anni personaggi come Boy George erano catartici per rivendicare una nostra alternativa, una nostra differenza in quanto gay.
Ma ora anche i miei nipotini sanno chi è un gay (e non a causa dello zio, scemi!). Quindi è venuto a mancare l’esigenza di avere modelli esplicitamente gay nella arti popolari.
Credo che da Stone wall in poi la nostra accettazione (diritti civili, riconoscimento pubblico etc) abbia richiesto un pezzo da pagare: la perdita della valenza del movimento gay portatore di contro cultura. Per poter appoggiare le chiappe nella “società civile”, dovevamo smettere di fare paura, smettere di essere così diversi, smettere di portare modelli sovversivi e alternativi. E tanti gay secondo me hanno fatto questa scelta (soprattutto in italia): “uniformiamoci all’etero cultura, così posso scopare con gli altri maschi senza che nessuno mi rompa i coglioni.” Insomma l’essere gay è stato ridotto solo all’atto sessuale omosessuale, e non più a una diversità di comportamenti, pensieri, aspirazioni e modelli. Per poter essere accettai i gay hanno dovuto cominciare a pensare, vestire, comportarsi come gli etero. E cosa è stata sacrificata: la nostra estetica, la nostra cultura, i nostri valori.
So che su questo sito ne abbiamo parlato altre volte ma basta leggere gli annunci in rete tutti carichi di farse omofobe: “no checche”, “solo maschili”, etc
I gay hanno introiettato una valenza negativa dell’essere gay. Solo chi non lo sembra può meritare il rispetto. Probabilmente questa “mentalità” (anche se credo di fargli un complimento definendola così) è nata negli anni ’80 in tempi di AIDS. Quando gay significava “portatore di malattia”. Forse li è nata l’esigenza di confondersi con gli etero, per non essere giudicati sulla base di un pregiudizio. Forse allora si è dovuto mettere in naftalina i vestiti glitterati con cui si andava a ballare la dance negli anni ’70!

Io probabilmente sono un vecchio nostalgico e ideologico (sul comodino tengo ancora “Elementi di critica omosessuale”) ma a me piace pensare ai gay ancora come a dei “diversi”. Il che non vuol dire migliori. Ma mi piace pensare di avere delle differenze sostanziali da Fabrizio Corona, anche in virtù del mio orientamento sessuale. Insomma per concludere la “cultura gay” è stata sostituita da “consumatori gay”. Così è più facile per tutti, gay e etero. Non produciamo più alternativa, ma consumiamo modelli globalizzati e uniformati ad un estetica machista e eterosessualizzata.
E allora a proposito di contro cultura gay ascoltate il pezzo che ho postato: “Gay Messiah” di Rufus Wainwright. “Risorgerà dai porno degli anni ’70, indosserà calzettoni lunghi con eleganza e con un sorriso incredibilmente innocente. Fai meglio a pregare per i tuoi peccati, perché il messia gay sta arrivando. Scenderà dalle stelle, Studio 54 e apparirà sulla sabbia della spiaggia di Fire Island. Fai meglio a pregare per i tuoi peccati, perché il messia gay sta arrivando. No, non sarò io. Io sono Rufus battista, battezzato di sborra. Invece succederà che qualcuno chiederà la mia testa e quindi mi inginocchierò e gliela porgerò, guardando in basso. Fai meglio a pregare per i tuoi peccati, perché il messia gay sta arrivando.”





mercoledì, gennaio 7

Mettiamoci nei panni degli Antony & The Johnsons e cioè la peggiore situazione in cui un gruppo possa trovarsi. Aver fatto un primo disco notato solo da una ristrettissima nicchia, seguito nel 2005 da un secondo disco “I’m a bird now” su cui nessuno avrebbe puntato 50 centesimi e che invece è diventato un best seller. Il resto è storia: “Mercury Prize” come miglior album dell’anno, un tour durato di fatto 4 anni e sempre sold out, Antony richiesto come vocalist o autore praticamente da chiunque.
E adesso arriva il brutto. Che fare?
Chi conosce i precedenti dischi ( e soprattutto la sconfinata produzione di inediti e live) non rimarrà deluso dal loro terzo cd degli Antony & The Johnsons: “The Crying Light”, in uscita a fine gennaio. Ad un primo ascolto gli elementi che hanno reso celebre il suono della band ci sono tutti. Poi pian piano, dopo ripetuti ascolti, ti accorgi di significative differenze.
Nella track list del disco solo tre canzoni sono di fatto inedite (“The crying light”, “Epilepsy is dancing” e “Aeon”). Le altre erano presenti in precedenti EP o già eseguite dal vivo. Ad esempio ben tre tracce (“One Dove”, “Kiss my name” e “Daylight and the sun”) erano state cantata al concerto di Roma del 1 Novembre 2006.
Ma in queste nuove versioni ne guadagnano tutte. Gli arrangiamenti (a volte anche un po’ barocchi), sono a mio avviso, l’elemento distintivo e di novità di questo disco. Infondo alla voce d’angelo di quest’uomo non si poteva chiedere di più, se non di regalarcela in più occasioni possibili. E se nei precedenti lavori la sua voce era accompagnata da delicati interventi dei Johnsons, in questo disco l’aspetto musicale è più ricco, più sfaccettato, più epico.
Se a partire dal primo lavoro il piano aveva un peso portante per quasi tutti i pezzi, adesso è meno in primo piano, ma sottolinea e accompagna una miriade di strumenti arrangiati con un armonia e una delicatezza dal “genio” Nico Mulhy.
E rispetto ai precedenti lavori questo disco è decisamente più vario, ci sono molti (decisi) cambi di ritmo e di atmosfera. La voce di Antony passa da toni solenni e intimi a quelli più movimentati ed energici di “Aeon”.
Descrivere il disco a parole è impresa ardua. Questa raccolta di canzoni sono un piccolo manuale di come si scrive la perfetta canzone indie folk, semplificata e resa innocente dalla mente di un bambino e cantata con la sofferenza e il disincanto di un adulto che non riesce a crescere. L’ho già scritto altre volte sul mio blog che la musica di Antony mi piace proprio perché ci si trova di tutto.

Ma ecco il mio resoconto traccia per traccia.

“Her Eyes Are Underneath the Ground” ha il difficile compito di aprire questo disco tanto atteso. E allora sembra che Antony consapevole delle aspettative dei fans voglia accontentarli. Quindi ci regala un pezzo che potrebbe essere presente su “I’m a bird now” per stile e atmosfera.
Però vuole anche regalare due novità: intanto l’uso della voce stressata e portata a picchi e acuti che mai avevamo sentito (e che onestamente dal vivo nelle poche date concesse nella fine del 2008, non sempre è riuscito a gestire al meglio). E poi il finale strumentale: cupo, sospeso quasi da opera lirica.
“Epilepsy Is Dancing” lo definirei un pezzo agrodolce e pare sarà il secondo singolo estratto dall’album. Il pezzo parte con la melodia per me più pop mai sentita in un disco di Antony e forse servirà per avvicinare un pubblico più vasto. Nella parte finale del pezzo Antony ci regala tutta la sua maestria vocale in un crescendo di phatos.
La versione aggiornata e forse definitiva di “One Dove” è il capolavoro del disco. E’ una canzone soul toccante, carica di una melodia sublime con un testo nient’affatto banale, come il titolo poteva invece far temere. Quei due accordi di piano che si alternano al cantato nella prima strofa, quelle spazzole leggere che accarezzano i piatti, gli archi e quei fiati che fanno volare in alto nel ritornello questa colomba. Tutto è veramente perfetto. Tutto è trattenuto, anche la voce di Antony è gestita e non viene mai spinta oltre. E’ veramente la colonna sonora di un istante in cui il mondo si ferma e con il naso in su guardando il volo di questa colomba.
“Kiss my name” è presente nella sua meravigliosa versione orchestrale anticipata il Settembre scorso a Milano. Qui sono il ritmo e la batteria ad essere protagonisti. Si capisce perché nella track list questo pezzo segue “One Dove”, perché questo è il volo della colomba, è la libertà della fuga, la gioia del movimento. E infatti anche dal vivo durante l’interpretazione di questo pezzo Antony alza e libera le sue braccia come fossero delle ali.
In “The crying light” il cantato di Antony è, a mio avviso, più vicino alle sue prime produzioni. Un cantato sublime e alieno che ad ogni ascolto ti penetra sotto pelle come un veleno. Anche l’arrangiamento è più scarno, proprio come nel primo disco: il pianoforte più deciso, gli archi, una chitarra e lo scocchio delle dita.
“Another world” è il pezzo che ad Ottobre ha anticipato l’album e che io trovo geniale. Come ho già scritto altrove avevo paura che Antony, dopo la sovraesposizione mondiale e il successo commerciale dei duetti con Bjork e e dei suoi cameo per gli Hercules & Love Affair, sarebbe stato tentato di rendere la sua musica più accessibile per il pubblico vasto ed eterogeneo che è riuscito a conquistare. E invece si ripresenta con un pezzo tiratissimo, probabilmente il meno immediato dell’intero lotto. Il tutto gira ripetutamente e ostinatamente su pochissimi accordi e il cantato viene mantenuto sulla stessa tonalità senza cercare effetti speciali di facile presa. Ripetitivo, volutamente monotono, apocalittico (come il testo sottolinea), pura paranoia urbana. Insomma per i miei canoni estetici: la meraviglia delle meraviglie!
“Daylight and the Sun” al contrario è un walzer barocco sulle note del quale ti immagini ballare una coppia stile la bella della bestia. Con un piano nervoso che si incaponisce su alcune note prima di lanciarsi in un sali e scendi, con archi da capogiro e suoni più grezzi, quasi di legni sbattuti. Il tutto si andrà a spegnere per sottrazione in uno dei finali più dolci e sognanti dell’intero disco.
“Aeon” ti frega. Inizia con un piano malinconico, degli archi sospesi. Ma appena entra la voce di Antony si trasforma in un pezzo memorabile. E’ come se lo spirito di Elvis si fosse impadronito del corpo di Antony e volesse vedere che effetto fa cantare “un suo pezzo” con quella voce. Accompagnato da una chitarra elettrica Antony elabora e distorce il concetto di rhythm and blues e ci regala una sua personale interpretazione del genere, modernamente concettuale.
“Dust & Water” è un pezzo a capella, accompagnata in sottofondo da un lamento corale, prolungato, primitivo e cavernoso del nostro. Ed è quasi una ninna nanna, un mantra da ascoltare prima di addormentarsi per ricordarci che in questo mondo siamo di passaggio e non siamo altro che polvere e acqua.
“Everglade” è lo stato di grazia del disco e il modo migliore per farci stare sulle spine in attesa delle prossime date previste in Italia a Marzo e farci passare i prossimi mesi alla ricerca di b-sides e interpretazioni inedite live. Un pezzo maestoso che incanta al primo ascolto.

Voto: 4 stelline e ½ (su cinque)

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