Chi mi conosce bene sa che dico sempre solo la metà di quello che vorrei dire e solo la metà della metà risulta comprensibile. Il che, lo ammetto, è una valutazione generosa delle mie capacità comunicative.

mercoledì, maggio 27

Vincere - di Marco Bellocchio- official trailer

Ieri sera ho visto “VINCERE” il nuovo film di Marco Bellocchio, presentato al Festival di Cannes con Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno.
E’ la storia dell’amante del giovane Benito Mussolini, con cui ha concepito un figlio, prima riconosciuto per poi essere successivamente disconosciuto.
Ovviamente Benito Mussolini, una volta avviato alla carriera politica che lo porterà ad essere il duce, cercherà in tutti i modi di zittire e nascondere la presenza scomoda della donna che va ad intaccare quel modello sociale e di famiglia che il fascismo andava proponendo. E ci riuscirà! La donna e il figlio saranno reclusi in ospedali psichiatrici fino alla loro morte.
Il film è visto dal punto di vista meno storico e famoso: quello di lei, oscurata dalla storia per non far cadere in ridicolo la vera moglie del duce, Claretta.
Si cerca di ridare voce a chi non l’ha mai avuta, a chi è stata zittita.
E quindi il film cerca di ribadire (senza avere grosse risposte) le domande che questa donna si è fatta per tutta la vita.
Perché bisogna dimenticarsi quello che si è stati, la strada che si è percorsa prima di arrivare dove si è?
Perché bisogna screditare ciò che diverso per dare un senso a se stessi?
Possibile che io non gli manchi, quando lui mi manca da morire?
Domande che continua a ripetersi in attesa di risposte e di segnali che non sono mai arrivati. Le sarebbe servito un perché, avere una ragione per poter razionalizzare. Forse le cose sarebbero andate diversamente.

Il film ha indubbiamente uno stile interessante, ma a me non ha colpito pienamente. Ad esempio poteva risultare efficace sostituire, via via che il film proseguiva, l’immagine del Duce. Prima interpretato da Filippo Timi (in gioventù) e successivamente, dopo l’abbandono dell’amante, con vere immagini di repertorio. Poteva contribuire a sottolineare la distanza che si veniva a creare tra questi due personaggi. Ma la resa finale è deludente. Mentre lui cambia visibilmente nel corso degli anni raccontati dalla storia, il personaggio interpretato dalla Mezzogiorno rimane pressoché uguale fisicamente. Manco un ciuffetto di capelli bianchi.
Non mi è piaciuto nemmeno l’eccessivo spazio e sottolineatura ai primi rapporti sessuali tra i due, in cui si è cercato di far rivivere il temperamento rude e da dominatore di Benito Mussolini. L’ho trovato un po’ troppo semplicistico e un po’ provinciale. Insomma tra tutte le colpe che quest’uomo ha e tra le molte caratteristiche che, giustamente, dovrebbero rendercelo antipatico di certo non metterei il dito sul suo modo egoista e poco fantasioso di fare sesso. Anche perché di solito per ogni sadico, c’è un masochista. Insomma ho trovato quelle scene poco rappresentative della storia e della dinamica sviluppata nella coppia.
Ho amato molto la fotografia: scura e claustrofobica in alcune scene,
Molto bravi gli attori, soprattutto la Mezzogiorno che è stata in odore di palma d’oro a Cannes fino all’ultimo!

Alla fine del film ho pensato che questa potrebbe essere la fine che faranno fare a Veronica lario, internata in qualche clinica e fatta passare per pazza e visionaria. Insomma un film sul trattamento riservato, ieri come oggi, alle “veline ingrate”.

Voto: 2 1/2 stelline (su cinque)

lunedì, maggio 25

Ieri sera ho visto “ANTICHRIST” il nuovo film di Lars Von Trier, presentato al Festival di Cannes (tra fischi e buuuuu) e che ha valso la palma d’oro come miglior attrice protagonista a Charlotte Gainsbourg.
Sappiamo che questo film è il primo lavoro del regista dopo la sua depressione che l’ha portato per mesi in ospedale. E se, come me, non avete una trafila personale di terapie per sconfiggere fobie, sensi di colpa e ansia e non sapete quale sia l’effetto sensoriale degli psicofarmaci forse non gusterete appieno la pellicola. Come giustamente l’ha difesa il regista dicendo che non è un lavoro per il pubblico o per i critici ma un film catartico sulle sue paure e sul suo dolore.

I protagonisti sono una giovane coppia che perde il figlio che cade dalla finestra. (No, non è un film su Eric Clapton e Lory del Santo!). Il dolore della donna è totale: fatto di sensi di colpa e ossessioni. Il marito, terapeuta, decide di curare personalmente la moglie, non rispettando la regola base della deontologia professionale che vieta di curare parenti o amici.
L’uomo decide di portare la moglie nel luogo fisico che incarna la sua paura più primordiale e autentica: il bosco di Eden, intorno alla loro casa di villeggiatura dove la donna si spostava spesso con il figlio per terminare i suoi studi antropologici.
Da qui in poi il film sarà un continuo simbolismo, una sequenza di immagini evocative e dense di significati, una lunga e teatrale messa in scena di concetti. Sbaglia e sicuramente lo detesterà chi giudicherà il film come “reale” e non come “simbolico”.
Io ci ho trovato molto della filosofia gnostica in questa analisi di Lars Von Trier.
Per i cristiani l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, e la creazione contiene l’impronta del creatore. Per lo gnosticismo, invece, esiste una differenza abissale fra Dio e la realtà materiale: lo spirito è sostanzialmente estraneo all’universo e il rapporto con il mondo materiale non può contribuire in nessun modo all’elevazione spirituale dell’uomo. Il mondo materiale non è opera di Dio, ma del male, del demiurgo Yaldaboath (e il titolo sembrerebbe confermare la mia tesi). E infatti tutto quello che c’è al mondo è destinato al male e al dolore: anche l’amore si può (e spesso lo fa) trasformarsi in odio. Ogni vita finisce, inevitabilmente. Tutto ciò che c’è di bello al mondo è provvisorio: tutto è destinato alla morte e alla sofferenza. E non possiamo fare nulla per fermare tutto questo dolore perché è nella nostra stessa natura crearlo. Abbiamo “bisogno” della morte, per mantenerci vivi. Come le piante abbiamo bisogno che i frutti cadano e marciscano, per dare la possibilità a nuovi fiori di sbocciare. Nello stesso momento in cui mettiamo al mondo un figlio, lo stiamo già condannando all’esperienza della morte e del dolore. E alla paura.
Secondo gli gnostici le leggi di natura sarebbero dettate dal demiurgo che, orgoglioso del proprio dominio sull’uomo, cerca d’indurre l’uomo a riprodursi, aumentando e prolungando la condizione di alienazione dello spirito nella materia. E l’unica strada possibile per liberare lo spirito ed essere creature felici è abbandonare il mondo materiale, il corpo. E infatti gli gnostici “sperano” nell’estinzione dell’uomo. Ed esemplari di questo concetto sono le scene in cui la donna si taglia i genitali. Oppure accecata dal proprio odio e per la paura che il marito l’abbandoni, gli pianta (nel vero senso della parola) una zavorra alla gamba per impedirgli di fuggire. Confondendo e dividendo lo spirito con il corpo, condizione che inevitabilmente porta l’infelicità su questa vita terrena.
Ma noi siamo il nostro corpo, non possiamo liberarcene. Noi siamo le nostre paure. Noi siamo le nostre pulsioni, anche sessuali. Noi siamo i nostri errori. E quindi il film ci dice che non c’è scampo perché le nostre paure in realtà siamo noi stessi, per il solo fatto di essere vivi. Siamo essere approssimativi e destinati a sbagliare in continuazione fino all’estremo epilogo della morte (esemplare la scena dell’eiaculazione di sangue). Nessuno è mai riuscito a invertire questa tendenza e mai ci riuscirà. Ad alcuni capita prima e “apparentemente” senza nessuna colpa (come al figlio della coppia), ad altri capita in modo più cruento e per delle “colpe” stabilite da altri uomini (come alla tante donne bruciate come streghe nel corso del medioevo), altri lo faranno in modo autonomo procurandosi la morte. Ma tutti siamo a questo mondo per soffrire e poi morire. Tutti siamo qui per avere paura, per combattere con i nostri fantasmi, per passare attraverso le nostre fobie. Siamo qui per soffrire: sia che si tratti del dolore psichico di lei, sia che si tratti del dolore fisico di lui. Siamo un tutt’uno di dolore. E infatti anche la terapia del marito per cercare di curare la moglie, passa attraverso il corpo. Le emozioni vanno vissute fisicamente.
Il bagaglio ereditato dalla nostra cultura occidentale è contraddistinto dalla “scissione” artificiosa tra quelli che sono gli elementi di un'unica realtà: la mente e il corpo. Solitamente dividiamo il nostro organismo in un “Io”, capace di pensare, immaginare, simbolizzare e verbalizzare, ed un “esso” (il corpo), che trasmette sensazioni fisiche interne, e che ci consente di entrare in contatto con l’ambiente attraverso i cinque organi di senso e il movimento nello spazio. Tale scissione si esprime mediante il nostro linguaggio e allo stesso tempo ne viene rinforzata. Infatti non abbiamo un'unica parola che ci permetta di dire “Io-corpo”, ma ci riferiamo ad esso dicendo “il mio corpo”, come se fosse un oggetto che possediamo, e non come una parte del sé.Spesso l’uso della parola “mio” non indica un’identità tra esperienza corporea e sé, ma implica possesso nel senso di proprietà e sottolinea la distinzione tra il possessore e l’oggetto posseduto. Si può dire “il mio collo” allo stesso modo in cui diciamo ”la mia automobile”. Ma lei non soffre, noi si. Perché per noi (corpo+spirito) la perdita e il senso di vulnerabilità sono elementi costitutivi della nostra esperienza di esseri umani, così come la non controllabilità degli eventi.

Voto: 5 stelline (su cinque)

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martedì, maggio 12

Concerto o seduta spiritica?
Questa è la domanda dopo aver visto “A life along the bordeline” lo spettacolo/tributo a NICO domenica sera al teatro comunale di Ferrara.
Abbiamo assistito ad un concerto vero, suonato e cantato con trasporto da chi NICO l’ha veramente conosciuta o, come la giovanissima Soap&Skin, la deve avere visceralmente amata a posteriori. Insomma più che un cast -spesso assemblato da dinamiche promozionali da case discografiche- qui si trattava di una serata amicale per rimpiangere i bei tempi e amici andati. Per sempre.
Una grande messa cantata, come quella di Pasqua dove, per i credenti, si celebra Gesù che è morto per i nostri peccati. E a guardarsi intorno l’altra sera, con anche tanti 45enni ex punk accompagnati da figli adolescenti, ci si sentiva un po’ così: a rendere omaggio a chi ha incarnato (fino alle estreme conseguenze) il nostro malessere terreno, la nostra difficoltà di essere vivi. Che in qualche modo ci ha salvati, sacrificandosi per noi.
E non c’è spazio per la “maschera” Nico, per il mito, per il suo essere ormai icona. Nessuna immagine a ricordarcela, nessuna presentazione biografica, nessun ammiccamento al gossip sulla Nico tossicomane che dimentica le parole delle sue canzoni, la Nico su cui tutti hanno avevano sempre da raccontare qualche storia sordita. Niente maschera, ma solo la sua anima musicale. E volutamente si escludono i pezzi più famosi (“Chelsea Girl”, “These days” o i pezzi con i Velvet Underground), che probabilmente incarnano proprio la maschera Nico, come i media ce la ripropongono ancora oggi.
Ma si preferisce l’anima dei suoi pezzi più oscuri e intimi. E l’anima rimane ed è viva. Talmente viva da evolversi ancora. Con arrangiamenti nuovi, che gli inglesi avevano molto criticato nella prima data di questo spettacolo. E invece io ho apprezzato molto, l’attualizzazione della proposta musicale di NICO.

Non farò una recensione pezzo per pezzo, ma alcune cose resteranno nella mia memoria per sempre.
“Afraid” (da “Desert shore”, 1970) cantata da Mark Linkous, il front-man degli Sparkehorse. Pensavo che dopo la cover di Antony & the Johnson non si potesse fare di meglio. Ma questo Charlie Chaplin tristissimo e desolato ci ha regalato una versione dolente, intima e celestiale accompagnato dal quartetto d’archi dell’Orchestra del Teatro di Ferrara.
“My hear is empty” (da”Camera obscura”, 1985) l’unico pezzo senza band, cantato e suonato da sola al piano dalla rivelazione dell’anno: la 19enne Soap&Skin. Lei manco era nata quando uscì questo disco. Non avrebbe avuto senso eseguirla con “gli altri”, perché è evidente che la ragazza ha vissuto questo disco fuori tempo massimo, nell’intimità della sua cameretta, quando “gli altri” della sua età ascoltavano Madonna. Una piccola Nico disadattata. Intimorita nel essere ammessa su quel palco. Basta pensare a come fugge via all’ultima nota prima che parta il suo meritatissimo applauso. Oppure nella canzone finale, eseguita da tutti, dove viene trattenuta a forza da Peter Murphy che le impedisce di scappare nell’angolo più buio del palco (vedi al minuto 2:26 del video allegato), cosa che del resto fa appena riesce. E cosa fa? Guarda tutti questi grandi artisti e applaude con le manine, come fosse una del pubblico, come se quel palco non potesse mai essere suo. Santa subito!
“Mutterlain” (da “Desert shore”, 1970) cantata da Peter Murphy, il cantante dei Bauhouse. Un mito che rende omaggio ad un mito. E’ come se celebrasse il suo matrimonio con la sua sposa cadavere. Entra sul palco in completo nero e lancia petali di rosa con un intensità dark che ti fa gelare il sangue nelle vene. Gli ultime se li caccia in bocca, quasi a volersi soffocare e raggiungere la sua amata. Poi li soffia via e i petali volano trasportati dall’anima di Nico risvegliata da questa seduta spiritica.
“The Falconer” (da “Desert shore”, 1970) cantata da Lisa Gerrard. A giudicare dall’applausometro è lei la star più attesa della serata. Entra in scena con un sorriso da promoter dell’Avon, con il solito vestito da notte degli oscar edizione 1958 già sfoggiato a Milano e Roma gli anni passati, e un acconciatura medioevale, una via di mezzo tra Barbara Alberti e Rita Levi Montalcini. Ma basta che esca la prima nota dalla sua bocca (dopo gli innumerevoli tentativi di postura), per farci capire che siamo veramente al cospetto di un angelo.
“Win a few” (da “Camera obscura”, 1985) cantata da Mark Lenegan. Mark Lenegan per fisico, postura, voce, attitudine musicale a mio avviso incarna il “maschile”, anche più di Bruce Springsteen. Ed è commovente come un uomo del genere venga a patti con un pezzo, con un estetica, con un universo così smaccatamente “femminile” come quello di Nico e della sua stessa vita. E’ come se tutti gli uomini che le hanno fatto del male (per la loro stessa natura “maschile”) le chiedessero “scusa”, con il vocione di Mark e i suoi occhi taglienti.
Non ho gradito molto l’esibizione dei Mercury Rev e di Carmen Consoli…. Visto che non si è presentata nonostante fosse menzionata tra il cast nella locandina.

Voto: 5 stelline (su cinque).

Vedetevi il video del pezzo finale cantato da tutti gli artisti insieme sul palco:
http://www.youtube.com/watch?v=Xd9fQp9qh3Y

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