Chi mi conosce bene sa che dico sempre solo la metà di quello che vorrei dire e solo la metà della metà risulta comprensibile. Il che, lo ammetto, è una valutazione generosa delle mie capacità comunicative.

lunedì, novembre 26

Sabato sera sono andato a vedere il concerto di Rufus Wainwright al Conservatorio di Milano. Pubblico delle grandi occasioni e decisamente trasversale: gay & etero, ma anche conduttori di MTV ma anche Daria Bignardi con Luca Sofri. Insomma di tutto un po’. E già questo la dice lunga sullo stile di questo cantautore americano che riesce veramente ad assemblare insieme molte cose , come ad esempio, rendere assolutamente moderno un classico arrangiamento orchestrale.
Non avevo mai visto la sala Verdi del conservatorio, e mi ritrovo in poltroncine (strettissime) disposte in gradinate molto ripide. Infatti Rufus durante il concerto ha ironizzato dicendo che a guardarci da così in basso, pensava di essere al “Machu Picchu”. In compenso l’acustica è veramente ottima.


Guardo il palco e mi colpisce subito la scenografia fatta da una strana bandiera degli Stati Uniti. Sono troppo poche le righe. E le stelle non sono quante gli Stati degli USA, sono molte meno. E non sono neanche stelle, ma sono fiori, fiocchi di neve, ricami. A guardare meglio le stelle sono state liberate, come recita il titolo del suo ultimo disco, e si ritrovano sparse sul palco. Alcune attaccate al pianoforte. Altre per terra. Altre le ritroveremo addosso a Rufus e ai suoi musicisti. E quindi capisco che quello che mi aspetta è la rappresentazione di un idea. Quella è la sua idea della bandiera americana. Un idea di parte (mica ci sono tutte le strisce bianche e rosse), un idea dissacrante e ironica (le stelline che “fuggono”), un idea diretta e semplice. E allora pensi alla bandiera: un pezzo di stoffa che i governi usano prima come simbolo per giustificare le proprie azioni. Oppure le usano per coprire le bare di chi ci ha lasciato la pelle.
Rufus è un artista che ha dichiarato in modo chiaro la sua contrarietà all’operato del governo Bush. Spesso come contro-partita si è sentito accusato di essere “anti-americano”, quasi a voler screditare la sua posizione, e farla valutare come negativa facendo leva sull’orgoglio nazionale ferito. Ancora una volta Rufus non si tira indietro. E quella bandiera non fa altro che ricordarci che lui non è un “anti-americano”, ma piuttosto un “altro-americano”. Vuole ribadire la sua diversità. O la sua unicità. La sua idea.


Il concerto ha confermato le mie sensazioni. Rufus arriva puntualissimo sul palco alle 21.10. Il concerto inizia con il brano che da il titolo al suo ultimo disco “Release the stars”, e il relativo singolo “Going to a town”, suonato al piano in una versione (un po’ accorciata nei vocalizzi finali) che è ancora più intensa che su disco. Il suo ultimo disco la fa da padrone nella scaletta del concerto, ben 10 pezzi su 12 suonati.
Rufus è molto loquace, stimolato da un pubblico in adorazione. Si lancia in divertenti aneddoti. Per esempio racconta che nel pomeriggio il suo fidanzato aveva un incontro con alcuni responsabili della Scala, che non conoscendo Rufus hanno declinato l’invito al concerto. Ma dice che un giorno la sua musica sarà suonata pure alla Scala e anche lui, come noi stasera, potrà godersela seduto in poltrona.
Oppure durante una indimenticabile interpretazione di un suo classico “Cigarettes & chocolate milk”, eseguita da solo al piano, ha fatto qualche classica scala di note al pianoforte e rivolto al pubblico si è giustificato dicendo: “hey, stò pur sempre suonando in una scuola di musica”.
La voce di Rufus maturando è pure migliorata. E’ più piena, più decisa e più invecchia sembra sempre più deciso a giocare con le sue interpretazioni. E infatti lo spettacolo è un magico caleidoscopio di stili diversi, si passa dal classico concerto folk voce e chitarra, all’assolo di piano, a una rappresentazione più rock, fino ad arrivare all’avanspettacolo e al cabaret! Ad un certo punto canta una canzone tradizionale irlandese, senza l’amplificazione del microfono ma a voce nuda, come nelle opere liriche.
Anche dal punto visivo c’è di che divertirsi! Durante il primo set Rufus indossava un completo di taglio classico ma con inserti e fantasie un po’ carnevalesche. Nel secondo set è uscito con il costume da bavarese con brettelline e calzoni corti. E nonostante questo look più “maschile” ha interpretato due canzoni di Judy Gardland, ricordando che a fine anno uscirà il dvd con il cover show a lei dedicato. E vederlo cantare così vestito le canzoni della mitica Judy, era un tutt’uno con quella strana bandiera americana che aveva alle spalle. Era la messa in scena della sua idea di Judy, di cosa per lui significava quel pezzo.
Terminato il secondo set il pubblico ha richiesto a gran voce i bis. Lui si è fatto attendere un po’, e poi è comparso in accappatoio bianco come fosse stato richiamato sul palco dopo che era già entrato in doccia. Il primo bis da solo al piano ci regala un Rufus intensissimo. Una volta finito il pezzo si avvicina al pubblico per quello che sembra il commiato finale. E invece si sfila l’accappatoio, sotto è in tenuta da Liza Minelli in cabaret: calze di najon nere, giacca e bombetta. Con fare molto divertito si aggiunge qualche gioiello e si lancia in balli scatenati con i musicisti che gli fanno da boys!
Il concerto si chiude con Rufus versione drag queen che inforca la chitarra e suona in una stranissima posizione a gambe incrociate “Gay Messiah”, con alcuni ragazzi tra le prime file che “benedetti con lo sperma”, come recita la canzone, non fanno altro che amarsi in un clima di euforia e gran divertimento.
Le uniche grandi assenti della serata: la sua meravigliosa versione di “Halleluja” di Choen e sua sorella Martha ai cori.


Voto: 5 stelline (su cinque)

La scaletta: Release the stars / Going to a town / Sans souci / Rules and regulations / Cigarettes and coffee milk / The art teacher / Tiergarten / Leaving for Paris no. 2 / Between my legsMatinee Idol / Do I disappoint you? / A foggy day (in London Town) / If love were all / Beautiful child / Not ready to love / Slideshow / Irish folk song / 14th StreetI don't know what it is / Poses / Complainte de la Butte / Get happy / Gay Messiah

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2 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Sono sostanzialmente d'accordo con il mio fidanzato: Rufus è stato sorprendente, un vero interprete capace di cimentarsi anche con standard del passato (estratti dal suo spettacolo dedicato a Judy Garland, del quale uscirà un DVD a dicembre). Eccellenti anche le sue performance al piano (personalmente i brani voce - pianoforte sono quelli che ho preferito). Tuttavia ho trovato un po' monotono il suo repertorio e questo - a mio avviso - spiega un po' i motivi che non hanno consentito all'artista di entrare nelle classifiche pop, relegandolo alla scena "alternative". Ma forse è meglio così: spesso artisti di culto come Rufus rimangono tali proprio grazie alla loro assenza dallo stardom internazionale e dai meccanismi commerciali dettati dalle Major. Un gran bel concerto, divertente e luccicante.

4:19 PM

 
Blogger Gift Zwerg said...

Mi è stato detto, (da un tizio che viaggia in treno senza biglietto e poi all’arrivo del controllore si barrica in bagno) che al concerto tra il pubblico ha avvistato pure la Daria Bignardi.
Ma si può essere più “viparoli” di così! ;0)

5:23 PM

 

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