Chi mi conosce bene sa che dico sempre solo la metà di quello che vorrei dire e solo la metà della metà risulta comprensibile. Il che, lo ammetto, è una valutazione generosa delle mie capacità comunicative.

giovedì, dicembre 11

PORTISHEAD "THIRD" - disco dell'anno

E’ difficile spiegare perché un disco diventi il mio preferito tra le centinaia di dischi ascoltati in questo 2008. Non credo sia stato l’effetto attesa: aver aspettato 11 lunghi anni non trovando sul mercato nulla che potesse rappresentarne l’alternativa. Non credo dipenda neanche dal fatto che vederli a Marzo dal vivo sia stata una delle esperienze musicali più intense della mia vita. Ma anche senza live credo che questo disco sarebbe saldissimo al primo posto.
Credo che questo sia il disco del mio 2008 perché è la rappresentazione in musica del mio personale mood di un intero anno. Smuove e amplifica sensazioni talmente intime che credo fari fatica ad ascoltarlo in pubblico. Difficile riassumere un disco tanto complesso: ma mi ricordo ceh quando lo ascoltai la prima volta rimasi colpito dalla sensazione di lotta, di antagonismo tra la melodia della voce di Beth Gibbons e la violenza degli strumenti e delle macchine. L’incomunicabilità fatta in musica. La Gibbons stessa pare meravigliosamente "ingabbiata", costretta fra quattro pareti stagne fatte di suoni spessi e rumori, immersa nell'agonia. Da brividi.

Il disco parte con “Silence”, quasi a voler celebrare il silenzio discografico di una decade. Il pezzo si apre con un frame recitato in portoghese tratta da qualche vecchio film. Il tono di voce, la musicalità della lingua sembrano presagire sonorità e atmosfere “morbide”. Ma subito dopo ci si scontra con un vero muro sonoro: pesante, ripetitivo, iper arrangiato, durissimo. Che dura ben 2:10 minuti finché quasi si blocca per far emergere la sofferenza della voce di Beth. Sembra quasi che lei abbia aspettato il moment o in cui il suo carnefice si fermi per uscire dalla sua tana. E tutta la canzone mantiene il ritmo febbrile di un inseguimento, è vivida la presenza di un pericolo, l’angoscia di una lotta. Il tutto musicato da una sequenza di suoni assillanti, supportati da una session spettacolare di percussioni veloci e primitive.
Il secondo pezzo è “Hunter”, cacciatore appunto. Qui l’atmosfera è sofisticatissima. Non è lounge, non è folk, non è pop. Ma è tutto questo insieme. E’ il sofferto e rassegnato cantato di Beth stavolta a “stonare” con la musica.
Si prosegue con “Nylon Smile” dove la scena diventa più acida ed elettrica. Personalmente questo è il pezzo che preferisco meno di tutto il lotto, perfetto per farci qualche remix tamarro da passare in qualche aperitivo milanese.
Si prosegue con “The Rip” che è destinato a diventare un classico dei Portishead. Lo dimostra il fatto che già i Radiohead (mica cazzi…) lo hanno omaggiato con una cover. Il pezzo parte come un folk lunare e alieno, con la voce di Beth che è veramente allo stato di grazia. Ma a metà del pezzo il riverbero ossessivo della sua voce “lunare” viene contaminato da suoni “terreni”, sembrano quasi dei legni sbattuti. E tra il cantato e il suono si crea quella distanza siderale che ai miei occhi lo rende un capolavoro. L’atmosfera che si crea è di distanza, disillusione, incompatibilità.
A seguire “Plastic”, dove ancora si avverte fortissima la dicotomia tra le linee melodiche di quanto canta Beth e il delirio di suoni e rumori che sotto cercano di mortificarla, coprirla, disorientarla. Ascoltatela bene questa canzone: sembra di immaginare questa specie di Giovanna d’Arco che canta la sua verità circondata da lame metalliche, eliche di elicotteri e boomerang giganti che cercano di farla fuori. Per altro le percussioni migliori mai sentite quest’anno.
“We Carry On” è forse il manifesto di questo disco. L’inizio è paranoico, ossessivo, disturbante, minaccioso. Con questo “rumore” tirato all’infinito che ti trivella la mente. Anche in questo pezzo si avverte fisica la competizione tra la voce di Beth e questo suono (che sembra quasi un segnale morse), diventa quasi un duetto. Un pezzo dark. Un pezzo industrial. Un pezzo dark-wave. Un pezzo techno, Semplicemente una meraviglia. Questo è il funerale del trip-hop che al confronto appare come qualcosa di sfocato, di limitato, di troppo leccato. Appare come un genere a cui … mancava qualcosa. E questo qualcosa (che ancora non so definire) è tutto qui dentro.
Dopo questo tripudio di suoni ansiogeni, c’è incastonato “Deep Water”. Una canzoncina di poco più di un minuto. Quasi un pezzo da CocoRosie, una filastrocca sbilenca e cantata quasi da ubriachi. Sembra quasi un intercettazione da un mondo lontano, lontanissimo, fatto di spensieratezza e felicità.
Subdoli questi Portishead. Dopo questo intervallo celestiale ti piazzano il pezzo più duro e sconvolgente del disco: “Machine Gun”. Canzone che hanno pure scelto (in barba ai discografici cacasotto) come “singolo” (se ha ancora senso usare questa parola). Qui Beth sembra una condannata a morte sotto il fuoco nemico di suoni che sembrano delle mitragliatrici e delle sequenze “cattive” (non so come altro definirle) di batterie sintetiche. Sembra di essere dentro la fabbrica del terrore e dell’angoscia. Dove tutto questo viene plasmato, creato e sembra quasi di sentire il lavoro e lo sferragliare di macchine infernali. Su questo tappeto denso di suoni bassissimi scagliati (e non suonati) con cattiveria e rumori sempre più pressanti, si muove un cantato di Beth sensibile e rassegnato. Un misto tra Pubblic Enemy, Kraftwerk, Einstürzende Neubauten.

Si prosegue con “Small”. Il ritmo qui si ferma totalmente. E’ quasi un lamento alla supportato da piccoli interventi. Un pezzo intimo, funereo e bellissimo.

A seguire “Magic Door”, che si avvicina molto di più alla vecchia produzione del gruppo. Qui tutto viaggia all’unisono. Anche l’uso di synth lo rendono quasi un pezzo che poteva essere inserito nel precedente disco del gruppo. Per contestualizzarlo al resto del disco ci hanno piazzato nel mezzo l’inserto di un suono spettrale e acido, che però sembra veramente un aggiunta ad un pezzo che per struttura è diverso dal resto del lotto.

Ma è il finale che fa gridare al miracolo. “Threads” è tra le cose migliori che abbia sentito in tutta la mia vita. (vedi video)Questo è lo scontro finale tra il suono del disco e la melodia della voce. E sarà un duello sofferto dove la voce di Beth è la più sofferta mai sentita, il ritornello è veramente un “rogo di osanna liberatori”, come ho letto in una recensione. Ma haimè non esce vincitrice. Viene letteralmente mangiata da questo suono finale che chiude il disco. Un suono acuto e spietato che sembra quasi una sirena di una nave. Magari del Titanic che da un ultimo segno di vita dopo più di un secolo. Insomma qualcosa di spaventoso e alieno. Ancora più sorprendente pensare che questo suono i Portishead lo hanno ottenuto prendendo il suono di una chitarra e aggiungendo milioni di sintetizzatori. Insomma un esperimento da nerd brufoloso. E non da indiscussi maestri della musica come hanno nuovamente dimostrato di essere.

1 Comments:

Blogger Daniel said...

Che dire? Concordo con il numero uno della tua classifica. è un disco eccezionale.
un saluto
Daniel

4:35 PM

 

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